Coronavirus Fase 2: L’assordante silenzio sul rilancio e il sostegno al patrimonio culturale, artistico e territoriale.

 

Riaprire tutto, ma anche no.

In un eterno conflitto shakespeariano fra sicurezza e intraprendenza, coraggio e paura, prudenza e spavalderia alcune parole chiave quali cultura, arte, territorio sembrano cedere il posto alle keywords del mondo 2.0 al tempo della pandemia: contenimento, distanziamento, sussistenza, sopravvivenza.

E tanti saluti al tormentone evergreen “Che fortuna nascere in Italia!” che ha tanto alimentato programmi politici, meme virtuali e speech motivazionali  (non ultimo quello diventato virale di Farinetti, che vede il patron di Eataly ammiccare alla platea di una convention Mediolanum, snocciolando numeri ad effetto, ahimè non del tutto convincenti).

Una sorta di salmo laico in chiave sciovinista ovvero “siamo il paese con il 70% del patrimonio culturale mondiale…quanto siamo fortunati a nascere in Italia…un paese unico per biodiversità umana e naturale..” che ci accompagna da decenni: un’intera generazione di italiani cresciuta con l’idea di essere nata nel paese migliore del mondo.

Cresciuta, o meglio adagiatasi su questa idea, visto che siamo di gran lunga il paese più ignorante del mondo.

Si, avete letto bene: secondo l’indagine dell’Ipsos MORI, l’autorevole società britannica di statistiche e ricerche di mercato, l’Italia batte anche gli statunitensi nell’incapacità di comprendere i fatti, alterarne la percezione e separarli dai percepiti pubblici o personali.

Un bel primato – che deteniamo da anni anche in Europa – che non regala sogni sereni nell’era in cui impazzano più fake news che news.

Turismo culturale ed enogastronomico, il vero patrimonio che può rilanciare il Belpaese

Insomma, tutto cambia, tutto si trasforma, finanche il virus SARS evolve nel ceppo COVID19 regalandoci momenti di assoluta novità e follia, ma l’Italia resta ferma nella sua convinzione di essere la culla dell’umana cultura.

Ed in fondo in parte lo è. Osservando la storia nel suo complesso e chiudendo un occhio sugli ultimi decenni (non entrambi gli occhi, visto che sacche di resistenza estetica e culturale per fortuna permangono)  è indubbio che arte, cultura e biodiversità territoriale siano il patrimonio e soprattutto l’attrattiva principale di questo paese.

Viaggi culturali, turismo enogastronomico, esperienze mirate alla degustazione e alla fruizione del vino, della cucina e del nostro straordinario patrimonio artistico sono da decenni il cuore pulsante dell’Italia (incidono per oltre il 10% sull’economia di Roma e Milano) nonché il principale biglietto da visita di questo paese, capaci di offuscare con la propria bellezza l’enorme ritardo italiano su innumerevoli altri fronti.

Ma allora c’è da chiedersi: perché in questi giorni non si parla di cultura, di arte, di spettacolo, di sport, di enogastronomia?

E quando se ne parla, si badi bene, è per rassicurare le masse che saranno assolutamente le ultime, ultimissime attività a partire e tornare alla normalità.

Però.

Sembra che nel passaggio dalla fase 1 alla fase 2 si sia persa di vista fin dall’inizio la fase 0.

Non sono mai stato fan dell’aneddotica, ma ho vissuto in prima persona questa dicotomia percettiva della crisi pandemica nel nostro paese: fatti cento i miei contatti, la parte italiana di essi – circa il 70% – si è concentrata principalmente su analisi e impatti della crisi in merito ad economia, lavoro e vita sociale (con alcuni imbarazzanti digressioni sull’impossibilità di sviluppare un’adeguata movida estiva sulla spiaggia o avere accesso al parrucchiere e al nail designer di fiducia).

La parte estera di essi – compresi gli italiani “emigrati”, che in gran parte conservano o hanno maturato una visione ideale della terra natia – mi ha più volte stimolato anche su altri temi, quali l’impatto sull’arte, sui luoghi di cultura, sul vino, sull’enogastronomia in generale e, non ultimo, sul delicato equilibrio fra esigenza di contenere il virus e sospensione di alcune fondamentali libertà civili.

Insomma, a grandi linee, da un lato panem et circenses e dall’altro una diffusa preoccupazione di perdere il principale punto di riferimento mondiale in termini di turismo e approfondimento culturale ed enogastronomico, nonché – in tempi ormai lontani, lontanissimi – culla del diritto.

…eppure in Italia “con la Cultura…si mangia”

Ma uscendo dal particolare, preoccupa che tale “omissis” si confermi inquietantemente in ambito nazionale e ufficiale, in particolare in tutti i decreti, le bozze e le analisi delle numerose task force al lavoro, selezionati team che da settimane sono al lavoro per progettare una riapertura che si annuncia ricca di suspense, alla stregua di altri capolavori italiani del passato, quale il completamento della Salerno-Reggio Calabria.

E tanti saluti ai post inneggianti all’orgoglio italiano, ai “video che tutti dovrebbero vedere” e a tutte le analisi economiche in cui pur si evidenzia che la sola cultura ha oggi un impatto di 90 miliardi di euro, traducibili nel 6% del PIL italiano e circa 2 milioni di posti di lavoro.

Non c’è niente da fare: siamo e restiamo il paese degli stereotipi quali “con la cultura non si mangia”, “c’era proprio bisogno di aprire le librerie?” o dei paradossi, quali le multe elevate da zelanti “guardiani del distanziamento sociale” in divisa a chi avesse nella propria borsa della spesa giornali e vini, in quanto beni non necessari.

Una follia tutta italiana dove, da un lato, un ramo dell’esecutivo emana decreti che tendono a favorire (seppur con limitazioni) la circolazione della cultura o di beni che vadano al di là della mera sussistenza e, dall’altro, un altro ramo governativo sanziona in modo arbitrario chi dovesse peccare di leso minimalismo.

Straordinario.

E non stiamo accennando alle differenze normative e di approccio su base regionale e locale. Una vera babele legislativa che ci conferma indissolubilmente, anche nell’emergenza, tra i paesi più caotici d’Europa.

Il dibattito sul necessario, fra controllo e divieti

Che poi una domanda sorge inevitabile: ma se tale encomiabile e capillare controllo fosse dedicato alle piazze criminali o di spaccio delle grandi città, quali risultati straordinari potremmo ottenere in termini di contenimento della criminalità?

Mi rendo conto che il pusher sia una gatta da pelare maggiore della intollerabile vecchietta sanzionata perché assisa su una panchina in attesa del suo turno al supermercato o dell’odioso runner bullizzato per aver esercitato un diritto sancito dai decreti. Ma in fondo non sono forse altri i “nemici del popolo” piuttosto che gli untori creati da una caccia alle streghe mediatica che ha ricordato gogne di medievale memoria?

Insomma: panetti di lievito, carta igienica, cibo in scatola e penne rigate si; libri, giornali, vini e penne lisce no. Uscendo dal surreale (che poi è dannatamente reale) la domanda di fondo emerge chiara:

cosa si intende per necessario?

E a seguire sorge un quesito ancor più profondo e sostanziale: cosa ci rende “umani”?

Chi vi scrive tende ad escludere che l’odierna ricetta “compro-mangio-espello-dormo-ricompro” – con l’aggiunta di un mix di spezie digitali quali social, streaming, tv on demand e delivery – sia uno schema di gioco percorribile a lungo termine e soprattutto dignitoso.

Sopravvivere non è vivere.

Nel perseguire la sacrosanta salute dei più deboli e nel tutelare un sistema sanitario a rischio tracollo abbiamo consapevolmente scelto di fermarci.

Ora è tempo di ripartire e per farlo, a fianco della sopracitata sopravvivenza, serve un piano che ci faccia tornare a vivere. Ebbene si, vivere: stimolare mente, corpo e anima.

Ad esempio, non mangiare, ma tornare a degustare.

Pensate che i ristoranti fossero affollati per fame? Ciò che attira gli ospiti è vivere un’esperienza enogastronomica all’interno di un contesto stimolante e sociale.

Trasformare le sale, i tavoli e il servizio in un ambiente più consono ad un anatomopatologo difficilmente risveglierà il desiderio di riassaporare buona cucina e ottimi vini.

Allo stesso tempo necessitiamo di una roadmap che riporti arte, cinema, musica, letteratura all’interno delle nostre vite, nel cuore dell’agenda delle priorità nazionali.

E per inciso, un tour virtuale delle sale del Louvre, il cinema a domicilio con popcorn in una mano e whatsapp nell’altra, un concerto in streaming con audio e collegamento ballerini, una degustazione on line senza la condivisione delle stesse bottiglie e dello stesso contesto: tutte queste attività saranno sempre integrative e mai suppletive dell’esperienza reale.

 

Purtroppo nel chiuso delle nostre case, nella claustrofobia di vite via cavo, nella piattezza del junk food a domicilio non siamo disposti ad andare oltre la paura di morire.

Perché abbiamo perso da tempo il contatto con la nostra essenza più profonda, più antica, più alta: il nostro patrimonio culturale e territoriale.

Per questa ragione crediamo di non perdere nulla e – come fatto dalle generazioni prima di noi, che hanno indebitato figli e nipoti sull’altare del benessere – ci accontentiamo di sopravvivere oggi nella certezza che questo schema economico-culturale decreterà la morte civile, economica e culturale di molti di noi domani.

L’alternativa c’è ed è tornare a vivere, combattendo la paura e tornando magari anche a sacrificarci e soffrire, nella consapevolezza che questo salverà contenuti, sogni e progetti da lasciare in dote alle generazioni future.

 

 

Daniele Graziano

 

Comunicatore, event manager e formatore.

Con un background da executive manager, da anni ha concentrato le sua attività in formazione, event management e comunicazione.

E’ sommelier e wine communicator, nonché docente enologico in corsi ed eventi enogastronomici.